Chi abbia letto il titolo di questo post si chiederà cosa possa avere a che fare Joseph Conrad con il rispetto che provo per la lingua latina (rispetto solo istintivo, perchè la conosco appena) e per l'eredità - ormai da tempo sperperata - che ci fu lasciata da coloro che fecero risuonare le parole di quella lingua anche molto, molto lontano da Roma.
Il legame, invece, per me esiste e fu creato dalla lettura delle splendide prime pagine del celeberrimo racconto di Conrad noto come "Cuore di tenebra" da cui - come forse molti sanno - trasse ispirazione anche Francis Ford Coppola per il suo film "Apocalypse now".
Leggiamo insieme il bellissimo incipit, una descrizione magistrale degna di un pittore impressionista, tutta luce e macchie di colore:
"La Nellie ruotò sull'ancora senza far oscillare le vele, e restò immobile. La marea si era alzata, il vento era quasi caduto e, dovendo ridiscendere il fiume, non ci restava che ormeggiare aspettando il riflusso.
L'estuario del Tamigi si apriva davanti a noi, simile all'imbocco di un interminabile viale. Al largo, il cielo e il mare si univano confondendosi e, nello spazio luminoso, le vele color ruggine delle chiatte che risalivano il fiume lasciandosi trasportare dalla marea, sembravano ferme in rossi sciami di tela tesa tra il luccichio di aste verniciate".
[Joseph Conrad, Cuore di tenebra, traduzione di Luisa Saraval, Garzanti, 1990]
E adesso il brano che mi rimase nel cuore e che mi trasmise un grandissimo rispetto - che tuttora conservo - per l'opera dei nostri lontanissimi antenati, per il loro coraggio, per il senso della disciplina e per la lingua che con la sua solennità ed il rigore della sua grammatica in qualche modo racchiuse in sè tutto questo:
"Stavo pensando a quei tempi lontani, a quando i Romani vennero qui per laprima volta, millenovecento anni fa. L'altro ieri... È uscita la luce da questo fiume, da allora... I Cavalieri, dite? Già; ma è come una vampata che corre nella pianura, come un lampo fra le nuvole. Noi viviamo in quel guizzo, che possa durare finché questa vecchia terra continua a girare! Ma ieri, qui, c'erano le tenebre. Vi immaginate lo stato d'animo del capitano di una bella - com'è che si chiama? ah sì - trireme del Mediterraneo, che riceve bruscamente l'ordine di portarsi al nord, attraversare in gran fretta la terra dei Galli, prendere il comando di una di quelle imbarcazioni che i legionari - altra manica di uomini in gamba - costruivano a centinaia, in un mese o due, se si deve credere aquello che si legge. Immaginatevelo qui, in capo al mondo, un mare color del piombo, un cielo color del fumo, una nave non più rigida di una fisarmonica, a risalire questo fiume con delle provviste, degli ordini, o chissà cosa d'altro. Banchi di sabbia, paludi, foreste, selvaggi, ben poco da mangiare per un uomo civilizzato e da bere, solo l'acqua del Tamigi. Niente Falerno qui, niente scali a terra. Qua e là un campo militare sperduto nella landa selvaggia, come un ago in un pagliaio - il freddo, la nebbia, le tempeste, le malattie, l'esilio e la morte - la morte in agguato nell'aria, nell'acqua, nella boscaglia. Dovevano morire come mosche qui. Eppure lui se l'è cavata. E bene anche, indubbiamente, e senza neanche pensarci troppo, se non dopo, forse, per vantarsi di tutto quello che aveva dovuto sopportare. Sì, erano uomini quanto basta per poter guardare le tenebre in faccia."
Proprio come ci sentiamo noi oggi, non è così?
Il legame, invece, per me esiste e fu creato dalla lettura delle splendide prime pagine del celeberrimo racconto di Conrad noto come "Cuore di tenebra" da cui - come forse molti sanno - trasse ispirazione anche Francis Ford Coppola per il suo film "Apocalypse now".
Leggiamo insieme il bellissimo incipit, una descrizione magistrale degna di un pittore impressionista, tutta luce e macchie di colore:
"La Nellie ruotò sull'ancora senza far oscillare le vele, e restò immobile. La marea si era alzata, il vento era quasi caduto e, dovendo ridiscendere il fiume, non ci restava che ormeggiare aspettando il riflusso.
L'estuario del Tamigi si apriva davanti a noi, simile all'imbocco di un interminabile viale. Al largo, il cielo e il mare si univano confondendosi e, nello spazio luminoso, le vele color ruggine delle chiatte che risalivano il fiume lasciandosi trasportare dalla marea, sembravano ferme in rossi sciami di tela tesa tra il luccichio di aste verniciate".
[Joseph Conrad, Cuore di tenebra, traduzione di Luisa Saraval, Garzanti, 1990]
E adesso il brano che mi rimase nel cuore e che mi trasmise un grandissimo rispetto - che tuttora conservo - per l'opera dei nostri lontanissimi antenati, per il loro coraggio, per il senso della disciplina e per la lingua che con la sua solennità ed il rigore della sua grammatica in qualche modo racchiuse in sè tutto questo:
"Stavo pensando a quei tempi lontani, a quando i Romani vennero qui per laprima volta, millenovecento anni fa. L'altro ieri... È uscita la luce da questo fiume, da allora... I Cavalieri, dite? Già; ma è come una vampata che corre nella pianura, come un lampo fra le nuvole. Noi viviamo in quel guizzo, che possa durare finché questa vecchia terra continua a girare! Ma ieri, qui, c'erano le tenebre. Vi immaginate lo stato d'animo del capitano di una bella - com'è che si chiama? ah sì - trireme del Mediterraneo, che riceve bruscamente l'ordine di portarsi al nord, attraversare in gran fretta la terra dei Galli, prendere il comando di una di quelle imbarcazioni che i legionari - altra manica di uomini in gamba - costruivano a centinaia, in un mese o due, se si deve credere aquello che si legge. Immaginatevelo qui, in capo al mondo, un mare color del piombo, un cielo color del fumo, una nave non più rigida di una fisarmonica, a risalire questo fiume con delle provviste, degli ordini, o chissà cosa d'altro. Banchi di sabbia, paludi, foreste, selvaggi, ben poco da mangiare per un uomo civilizzato e da bere, solo l'acqua del Tamigi. Niente Falerno qui, niente scali a terra. Qua e là un campo militare sperduto nella landa selvaggia, come un ago in un pagliaio - il freddo, la nebbia, le tempeste, le malattie, l'esilio e la morte - la morte in agguato nell'aria, nell'acqua, nella boscaglia. Dovevano morire come mosche qui. Eppure lui se l'è cavata. E bene anche, indubbiamente, e senza neanche pensarci troppo, se non dopo, forse, per vantarsi di tutto quello che aveva dovuto sopportare. Sì, erano uomini quanto basta per poter guardare le tenebre in faccia."
Proprio come ci sentiamo noi oggi, non è così?
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