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venerdì 22 aprile 2016
The perfect classroom
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giovedì 7 aprile 2016
Relax... and learn!
Sir Ken Robinson's brilliant talk about education, creativity and our future.
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sabato 26 marzo 2016
Fascinating Rome
Just a few photographs from my visit in Rome (still in progress).
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St. Peter's Basilica (after digital processing) |
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At St. Angelo Castle |
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Navona Square |
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The Pantheon (interior) |
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The Pantheon (interior) |
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domenica 28 febbraio 2016
Nome non ha...
Nome non ha,
amore non voglio chiamarlo
questo che provo per te,
non voglio che tu irrida al cuor mio
com’altri a’ miei canti,
ma, guarda,
se amore non è
pur vero è
che di tutto quanto al mondo vive
nulla m’importa come di te,
de’ tuoi occhi de’ tuoi occhi
donde sì rado mi sorridi,
della tua sorte che non m’affidi,
del bene che mi vuoi e non dici,
oh poco e povero, sia,
ma nulla al mondo più caro m’è,
e anch’esso,
e anch’esso quel tuo bene
nome non ha...
Sibilla Aleramo (1876-1960)

amore non voglio chiamarlo
questo che provo per te,
non voglio che tu irrida al cuor mio
com’altri a’ miei canti,
ma, guarda,
se amore non è
pur vero è
che di tutto quanto al mondo vive
nulla m’importa come di te,
de’ tuoi occhi de’ tuoi occhi
donde sì rado mi sorridi,
della tua sorte che non m’affidi,
del bene che mi vuoi e non dici,
oh poco e povero, sia,
ma nulla al mondo più caro m’è,
e anch’esso,
e anch’esso quel tuo bene
nome non ha...
Sibilla Aleramo (1876-1960)

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venerdì 26 febbraio 2016
Un giorno in ospedale
Marina metafisica
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giovedì 25 febbraio 2016
Salvatore Quasimodo
Ai fratelli Cervi, alla loro Italia (1955)
In tutta la terra ridono uomini vili,
principi, poeti, che ripetono il mondo
in sogni, saggi di malizia e ladri
di sapienza. Anche nella mia patria ridono
sulla pietà, sul cuore paziente, la solitaria
malinconia dei poveri. E la mia terra è bella
d'uomini e d'alberi, di martirio, di figure
di pietra e di colore, d'antiche meditazioni.
Gli stranieri vi battono con dita di mercanti
il petto dei santi, le reliquie d'amore,
bevono vino e incenso alla forte luna
delle rive, su chitarre di re accordano
canti di vulcani. Da anni e anni
vi entrano in armi, scivolano dalle valli
lungo le pianure con gli animali e i fiumi.
Nella notte dolcissima Polifemo piange
qui ancora il suo occhio spento dal navigante
dell'isola lontana. E il ramo d'ulivo è sempre ardente.
Anche qui dividono in sogni la natura,
vestono la morte e ridono i nemici
familiari. Alcuni erano con me nel tempo
dei versi d'amore e solitudine, nei confusi
dolori di lente macine e di lacrime.
Nel mio cuore finì la loro storia
quando caddero gli alberi e le mura
tra furie e lamenti fraterni nella città lombarda.
Ma io scrivo ancora parole d'amore,
e anche questa è una lettera d'amore,
alla mia terra. Scrivo ai fratelli Cervi
non alle sette stelle dell'Orsa: ai sette emiliani
dei campi. Avevano nel cuore pochi libri,
morirono tirando dadi d'amore nel silenzio.
Non sapevano soldati filosofi poeti
di questo umanesimo di razza contadina.
L'amore la morte in una fossa di nebbia appena fonda.
Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore,
non per memoria, ma per i giorni che strisciano
tardi di storia, rapidi di macchine di sangue.
In tutta la terra ridono uomini vili,
principi, poeti, che ripetono il mondo
in sogni, saggi di malizia e ladri
di sapienza. Anche nella mia patria ridono
sulla pietà, sul cuore paziente, la solitaria
malinconia dei poveri. E la mia terra è bella
d'uomini e d'alberi, di martirio, di figure
di pietra e di colore, d'antiche meditazioni.
Gli stranieri vi battono con dita di mercanti
il petto dei santi, le reliquie d'amore,
bevono vino e incenso alla forte luna
delle rive, su chitarre di re accordano
canti di vulcani. Da anni e anni
vi entrano in armi, scivolano dalle valli
lungo le pianure con gli animali e i fiumi.
Nella notte dolcissima Polifemo piange
qui ancora il suo occhio spento dal navigante
dell'isola lontana. E il ramo d'ulivo è sempre ardente.
Anche qui dividono in sogni la natura,
vestono la morte e ridono i nemici
familiari. Alcuni erano con me nel tempo
dei versi d'amore e solitudine, nei confusi
dolori di lente macine e di lacrime.
Nel mio cuore finì la loro storia
quando caddero gli alberi e le mura
tra furie e lamenti fraterni nella città lombarda.
Ma io scrivo ancora parole d'amore,
e anche questa è una lettera d'amore,
alla mia terra. Scrivo ai fratelli Cervi
non alle sette stelle dell'Orsa: ai sette emiliani
dei campi. Avevano nel cuore pochi libri,
morirono tirando dadi d'amore nel silenzio.
Non sapevano soldati filosofi poeti
di questo umanesimo di razza contadina.
L'amore la morte in una fossa di nebbia appena fonda.
Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore,
non per memoria, ma per i giorni che strisciano
tardi di storia, rapidi di macchine di sangue.
lunedì 28 dicembre 2015
Pensiero di fine anno...
Lo affido alle parole del poeta. Con l'augurio che l'anno che sta per arrivare rechi con sé nuova vita e nuove speranze per ciascuno di noi.
E una donna che reggeva un bambino al seno disse: Parlaci dei figli.
Ed egli disse:
I vostri figli non sono i vostri figli.
Sono i figli e le figlie della brama che la Vita ha di sé.
Essi non provengono da voi, ma per tramite vostro,
E benché stiano con voi non vi appartengono.
Potete dar loro il vostro amore ma non i vostri pensieri,
Perché essi hanno i propri pensieri.
Potete alloggiare i loro corpi ma non le loro anime,
Perché le loro anime abitano nella casa del domani, che voi non potete visitare, neppure in sogno.
Potete sforzarvi d'essere simili a loro, ma non cercate di renderli simili a voi.
Perché la vita non procede a ritroso e non perde tempo con il giorno già trascorso.
Voi siete gli archi dai quali i vostri figli sono lanciati come frecce viventi.
L'Arciere vede il bersaglio sul sentiero dell'infinito, e con la Sua forza vi tende affinché le Sue frecce vadano rapide e lontane.
Fatevi tendere con gioia dalla mano dell'Arciere;
Perché se Egli ama la freccia che vola, ama ugualmente l'arco che sta saldo.
[da Kahil Gibran, "Il Profeta", 1923]
E una donna che reggeva un bambino al seno disse: Parlaci dei figli.
Ed egli disse:
I vostri figli non sono i vostri figli.
Sono i figli e le figlie della brama che la Vita ha di sé.
Essi non provengono da voi, ma per tramite vostro,
E benché stiano con voi non vi appartengono.
Potete dar loro il vostro amore ma non i vostri pensieri,
Perché essi hanno i propri pensieri.
Potete alloggiare i loro corpi ma non le loro anime,
Perché le loro anime abitano nella casa del domani, che voi non potete visitare, neppure in sogno.
Potete sforzarvi d'essere simili a loro, ma non cercate di renderli simili a voi.
Perché la vita non procede a ritroso e non perde tempo con il giorno già trascorso.
Voi siete gli archi dai quali i vostri figli sono lanciati come frecce viventi.
L'Arciere vede il bersaglio sul sentiero dell'infinito, e con la Sua forza vi tende affinché le Sue frecce vadano rapide e lontane.
Fatevi tendere con gioia dalla mano dell'Arciere;
Perché se Egli ama la freccia che vola, ama ugualmente l'arco che sta saldo.
[da Kahil Gibran, "Il Profeta", 1923]
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domenica 13 settembre 2015
Some fragments of Vale
sabato 12 settembre 2015
domenica 29 marzo 2015
Sulla tragedia del volo Germanwings
Non se ne può più di leggere pagine e pagine, interviste di "esperti" di ogni sorta, sproloqui politici, post nei blog e sui social network e chi più ne ha più ne metta sui particolari - possibilmente torbidi - della vita del co-pilota tedesco dello sfortunato volo Germanwings, precipitato nelle Alpi Francesi lo scorso 24 Marzo. A nemmeno una settimana dalla tragedia, nessuno spende più una parola per le vittime del disastro aereo (in tutto 150); le cui vite spezzate - che continueremo serenamente ad ignorare - sono state destinate da subito a confondersi in un semplice numero, divenuto ormai quasi un punteggio. Così come nessuno sembra provare un minimo di pietà per i familiari di Andreas Lubitz, sospettato di aver causato volontariamente l'incidente, divenuto rapidamente l'oggetto della morbosa attenzione dei media e del loro vasto pubblico, sempre avido di soluzioni semplici e di colpevoli da vivisezionare. Qui in Italia un quotidiano - se così lo si può chiamare - nei giorni scorsi ha avuto la brillante idea di titolare a tutta pagina "Schettinen", accomunando così in un'unica battuta di triste umorismo - uno sfottò che a qualcuno dev'essere parso geniale o almeno spiritoso - due tragedie recenti e le sofferenze che hanno causato in tante famiglie innocenti. Chapeau.
domenica 21 dicembre 2014
giovedì 20 novembre 2014
Un pezzo di Los Angeles alla periferia di Pisa
Stavo cercando su Google Maps la posizione di un indirizzo nella zona di Ghezzano, alla periferia di Pisa, quando mi sono imbattuto in questo "mostro". Credo che un incrocio di strade così complicato non esista nemmeno a Los Angeles. Sia detto senza offesa, ma penso onestamente che non possa essere che il risultato della fantasia malata del più diabolico tra gli scrittori di quiz per aspiranti automobilisti. Ma soprattutto, cosa ci fa una "cosa" così quasi in mezzo alla campagna, laddove una semplice rotatoria - di quelle che ormai vengono piazzate ovunque, tra un pò anche nei cortili dei condomini - oppure un più banale ed antiquato semaforo, avrebbero probabilmente risolto meglio il problema?
sabato 27 settembre 2014
Comprare il presente
In questi giorni, sui giornali, sono comparsi articoli e commenti, dedicati alle code ed alle resse di giovani (e meno giovani) in attesa davanti agli Apple Store, per poter acquistare il nuovo modello di iPhone.
In uno di questi commenti (onestamente non mi ricordo attribuito a chi, nè da quale quotidiano) si evidenziava - nella strategia di mercato di Apple - l'intenzione e la capacità di formare nei potenziali acquirenti la convinzione di poter comprare non tanto un prodotto, seppur tecnologicamente avanzato; quanto piuttosto un vero e proprio pezzo di futuro.
A me pare invece che quello che era in vendita e così desiderato fosse nient'altro che un piccolo pezzo di presente, la tascabile conferma di un'identità (habeo ergo sum), l'ennesimo tatuaggio.
In uno di questi commenti (onestamente non mi ricordo attribuito a chi, nè da quale quotidiano) si evidenziava - nella strategia di mercato di Apple - l'intenzione e la capacità di formare nei potenziali acquirenti la convinzione di poter comprare non tanto un prodotto, seppur tecnologicamente avanzato; quanto piuttosto un vero e proprio pezzo di futuro.
A me pare invece che quello che era in vendita e così desiderato fosse nient'altro che un piccolo pezzo di presente, la tascabile conferma di un'identità (habeo ergo sum), l'ennesimo tatuaggio.
In fila all'Apple Store di Firenze - Foto ANSA - © Copyright ANSA
venerdì 22 agosto 2014
Un messaggio dell'imperatore
Il celebre racconto di Franz Kafka (che lessi per la prima volta all'interno di una raccolta di novelle brevi, tra cui La metamorfosi) illustra magistralmente uno dei temi centrali dell'opera dello scrittore austro-ungarico, quello della solitudine del comune cittadino, ancorchè pefettamente ligio nell'osservanza di tutte leggi e convenzioni sociali, rispetto ad un potere che appare lontano, imperscrutabile, monolitico, ottuso.
Argomento che costituisce la struttura portante anche de Il processo. Nel famoso romanzo, l'impiegato Josef K. (sorta di tragico antesignano - su ben altri livelli letterari, si intende - dell'Ugo Fantozzi del nostro Paolo Villaggio) rimane vittima della sua stessa incapacità di ribellarsi all'assurda farsa di un processo che terminerà con l'esecuzione sbrigativa - mi viene da dire burocratica - di una condanna a morte altrettanto assurda.
Di tale processo sfugge ogni motivazione; ma anzichè opporsi, Josef K. non riuscirà a liberarsi dalla convinzione - e dalla speranza - che una qualche motivazione in realtà ci sia; e fino all'ultimo continuerà a sperare di ottenere una risposta, da un tribunale tanto sgangherato quanto privo di ogni umanità.
Come ne La metamorfosi, il senso di colpa prevale sulla libertà personale, la schiaccia completamente e la ottunde: "Come un cane!", disse, e fu come se la vergogna dovesse sopravvivergli. Sono queste le ultime parole e l'ultimo pensiero di Josef K., mentre la vita lo sta lasciando.
Nel Un messaggio dell'imperatore invece prevale il senso dell'attesa; l'attesa di una ragione per vivere, di un significato con cui riempire un'esistenza; esistenza che Franz Kafka terminerà tristemente, il 3 giugno del 1924, all'età di soli 41 anni.
L’imperatore – così si racconta – ha inviato a te, a un singolo, a un misero suddito, minima ombra sperduta nella più lontana delle lontananze dal sole imperiale, proprio a te l’imperatore ha inviato un messaggio dal suo letto di morte. Ha fatto inginocchiare il messaggero al letto, sussurrandogli il messaggio all’orecchio; e gli premeva tanto che se l’è fatto ripetere all’orecchio. Con un cenno del capo ha confermato l’esattezza di quel che gli veniva detto. E dinanzi a tutti coloro che assistevano alla sua morte (tutte le pareti che lo impediscono vengono abbattute e sugli scaloni che si levano alti ed ampi son disposti in cerchio i grandi del regno) dinanzi a tutti loro ha congedato il messaggero. Questi s’è messo subito in moto; è un uomo robusto, instancabile; manovrando or con l’uno or con l’altro braccio si fa strada nella folla; se lo si ostacola, accenna al petto su cui è segnato il sole, e procede così più facilmente di chiunque altro. Ma la folla è così enorme; e le sue dimore non hanno fine. Se avesse via libera, all’aperto, come volerebbe! e presto ascolteresti i magnifici colpi della sua mano alla tua porta. Ma invece come si stanca inutilmente! ancora cerca di farsi strada nelle stanze del palazzo più interno; non riuscirà mai a superarle; e anche se gli riuscisse non si sarebbe a nulla; dovrebbe aprirsi un varco scendendo tutte le scale; e anche se gli riuscisse, non si sarebbe a nulla: c’è ancora da attraversare tutti i cortili; e dietro a loro il secondo palazzo e così via per millenni; e anche se riuscisse a precipitarsi fuori dell’ultima porta – ma questo mai e poi mai potrà avvenire – c’è tutta la città imperiale davanti a lui, il centro del mondo, ripieno di tutti i suoi rifiuti. Nessuno riesce a passare di lì e tanto meno col messaggio di un morto. Ma tu stai alla finestra e ne sogni, quando giunge la sera.
Argomento che costituisce la struttura portante anche de Il processo. Nel famoso romanzo, l'impiegato Josef K. (sorta di tragico antesignano - su ben altri livelli letterari, si intende - dell'Ugo Fantozzi del nostro Paolo Villaggio) rimane vittima della sua stessa incapacità di ribellarsi all'assurda farsa di un processo che terminerà con l'esecuzione sbrigativa - mi viene da dire burocratica - di una condanna a morte altrettanto assurda.
Di tale processo sfugge ogni motivazione; ma anzichè opporsi, Josef K. non riuscirà a liberarsi dalla convinzione - e dalla speranza - che una qualche motivazione in realtà ci sia; e fino all'ultimo continuerà a sperare di ottenere una risposta, da un tribunale tanto sgangherato quanto privo di ogni umanità.
Come ne La metamorfosi, il senso di colpa prevale sulla libertà personale, la schiaccia completamente e la ottunde: "Come un cane!", disse, e fu come se la vergogna dovesse sopravvivergli. Sono queste le ultime parole e l'ultimo pensiero di Josef K., mentre la vita lo sta lasciando.
Nel Un messaggio dell'imperatore invece prevale il senso dell'attesa; l'attesa di una ragione per vivere, di un significato con cui riempire un'esistenza; esistenza che Franz Kafka terminerà tristemente, il 3 giugno del 1924, all'età di soli 41 anni.
L’imperatore – così si racconta – ha inviato a te, a un singolo, a un misero suddito, minima ombra sperduta nella più lontana delle lontananze dal sole imperiale, proprio a te l’imperatore ha inviato un messaggio dal suo letto di morte. Ha fatto inginocchiare il messaggero al letto, sussurrandogli il messaggio all’orecchio; e gli premeva tanto che se l’è fatto ripetere all’orecchio. Con un cenno del capo ha confermato l’esattezza di quel che gli veniva detto. E dinanzi a tutti coloro che assistevano alla sua morte (tutte le pareti che lo impediscono vengono abbattute e sugli scaloni che si levano alti ed ampi son disposti in cerchio i grandi del regno) dinanzi a tutti loro ha congedato il messaggero. Questi s’è messo subito in moto; è un uomo robusto, instancabile; manovrando or con l’uno or con l’altro braccio si fa strada nella folla; se lo si ostacola, accenna al petto su cui è segnato il sole, e procede così più facilmente di chiunque altro. Ma la folla è così enorme; e le sue dimore non hanno fine. Se avesse via libera, all’aperto, come volerebbe! e presto ascolteresti i magnifici colpi della sua mano alla tua porta. Ma invece come si stanca inutilmente! ancora cerca di farsi strada nelle stanze del palazzo più interno; non riuscirà mai a superarle; e anche se gli riuscisse non si sarebbe a nulla; dovrebbe aprirsi un varco scendendo tutte le scale; e anche se gli riuscisse, non si sarebbe a nulla: c’è ancora da attraversare tutti i cortili; e dietro a loro il secondo palazzo e così via per millenni; e anche se riuscisse a precipitarsi fuori dell’ultima porta – ma questo mai e poi mai potrà avvenire – c’è tutta la città imperiale davanti a lui, il centro del mondo, ripieno di tutti i suoi rifiuti. Nessuno riesce a passare di lì e tanto meno col messaggio di un morto. Ma tu stai alla finestra e ne sogni, quando giunge la sera.
Franz Kafka, Un messaggio dell'imperatore (da La metamorfosi e altri racconti, Mondadori)
Immagine dal film La città proibita, di Zhang Yimou
mercoledì 20 agosto 2014
Fabrizio De Andrè
Stamani mi è venuta in mente per caso una vecchia canzone di Fabrizio De Andrè. Le parole mi sono sembrate adatte a questo mio blog, sospeso un pò a metà tra razionalità ed esoterismo. Le voglio quindi ricordare qui e con esse ricordare il nostro Faber, che ci manca tanto.
Da chimico un giorno
avevo il potere
di sposar gli elementi
e farli reagire,
ma gli uomini mai
mi riuscì di capire
perchè si combinassero
attraverso l'amore
affidando ad un gioco
la gioia e il dolore.
[Fabrizio De Andrè, Un chimico, da Non al denaro, non all'amore, nè al cielo, 1971]
Da chimico un giorno
avevo il potere
di sposar gli elementi
e farli reagire,
ma gli uomini mai
mi riuscì di capire
perchè si combinassero
attraverso l'amore
affidando ad un gioco
la gioia e il dolore.
[Fabrizio De Andrè, Un chimico, da Non al denaro, non all'amore, nè al cielo, 1971]
martedì 19 agosto 2014
Joseph Conrad e il mio rispetto per il latino
Chi abbia letto il titolo di questo post si chiederà cosa possa avere a che fare Joseph Conrad con il rispetto che provo per la lingua latina (rispetto solo istintivo, perchè la conosco appena) e per l'eredità - ormai da tempo sperperata - che ci fu lasciata da coloro che fecero risuonare le parole di quella lingua anche molto, molto lontano da Roma.
Il legame, invece, per me esiste e fu creato dalla lettura delle splendide prime pagine del celeberrimo racconto di Conrad noto come "Cuore di tenebra" da cui - come forse molti sanno - trasse ispirazione anche Francis Ford Coppola per il suo film "Apocalypse now".
Leggiamo insieme il bellissimo incipit, una descrizione magistrale degna di un pittore impressionista, tutta luce e macchie di colore:
"La Nellie ruotò sull'ancora senza far oscillare le vele, e restò immobile. La marea si era alzata, il vento era quasi caduto e, dovendo ridiscendere il fiume, non ci restava che ormeggiare aspettando il riflusso.
L'estuario del Tamigi si apriva davanti a noi, simile all'imbocco di un interminabile viale. Al largo, il cielo e il mare si univano confondendosi e, nello spazio luminoso, le vele color ruggine delle chiatte che risalivano il fiume lasciandosi trasportare dalla marea, sembravano ferme in rossi sciami di tela tesa tra il luccichio di aste verniciate".
[Joseph Conrad, Cuore di tenebra, traduzione di Luisa Saraval, Garzanti, 1990]
E adesso il brano che mi rimase nel cuore e che mi trasmise un grandissimo rispetto - che tuttora conservo - per l'opera dei nostri lontanissimi antenati, per il loro coraggio, per il senso della disciplina e per la lingua che con la sua solennità ed il rigore della sua grammatica in qualche modo racchiuse in sè tutto questo:
"Stavo pensando a quei tempi lontani, a quando i Romani vennero qui per laprima volta, millenovecento anni fa. L'altro ieri... È uscita la luce da questo fiume, da allora... I Cavalieri, dite? Già; ma è come una vampata che corre nella pianura, come un lampo fra le nuvole. Noi viviamo in quel guizzo, che possa durare finché questa vecchia terra continua a girare! Ma ieri, qui, c'erano le tenebre. Vi immaginate lo stato d'animo del capitano di una bella - com'è che si chiama? ah sì - trireme del Mediterraneo, che riceve bruscamente l'ordine di portarsi al nord, attraversare in gran fretta la terra dei Galli, prendere il comando di una di quelle imbarcazioni che i legionari - altra manica di uomini in gamba - costruivano a centinaia, in un mese o due, se si deve credere aquello che si legge. Immaginatevelo qui, in capo al mondo, un mare color del piombo, un cielo color del fumo, una nave non più rigida di una fisarmonica, a risalire questo fiume con delle provviste, degli ordini, o chissà cosa d'altro. Banchi di sabbia, paludi, foreste, selvaggi, ben poco da mangiare per un uomo civilizzato e da bere, solo l'acqua del Tamigi. Niente Falerno qui, niente scali a terra. Qua e là un campo militare sperduto nella landa selvaggia, come un ago in un pagliaio - il freddo, la nebbia, le tempeste, le malattie, l'esilio e la morte - la morte in agguato nell'aria, nell'acqua, nella boscaglia. Dovevano morire come mosche qui. Eppure lui se l'è cavata. E bene anche, indubbiamente, e senza neanche pensarci troppo, se non dopo, forse, per vantarsi di tutto quello che aveva dovuto sopportare. Sì, erano uomini quanto basta per poter guardare le tenebre in faccia."
Proprio come ci sentiamo noi oggi, non è così?
Il legame, invece, per me esiste e fu creato dalla lettura delle splendide prime pagine del celeberrimo racconto di Conrad noto come "Cuore di tenebra" da cui - come forse molti sanno - trasse ispirazione anche Francis Ford Coppola per il suo film "Apocalypse now".
Leggiamo insieme il bellissimo incipit, una descrizione magistrale degna di un pittore impressionista, tutta luce e macchie di colore:
"La Nellie ruotò sull'ancora senza far oscillare le vele, e restò immobile. La marea si era alzata, il vento era quasi caduto e, dovendo ridiscendere il fiume, non ci restava che ormeggiare aspettando il riflusso.
L'estuario del Tamigi si apriva davanti a noi, simile all'imbocco di un interminabile viale. Al largo, il cielo e il mare si univano confondendosi e, nello spazio luminoso, le vele color ruggine delle chiatte che risalivano il fiume lasciandosi trasportare dalla marea, sembravano ferme in rossi sciami di tela tesa tra il luccichio di aste verniciate".
[Joseph Conrad, Cuore di tenebra, traduzione di Luisa Saraval, Garzanti, 1990]
E adesso il brano che mi rimase nel cuore e che mi trasmise un grandissimo rispetto - che tuttora conservo - per l'opera dei nostri lontanissimi antenati, per il loro coraggio, per il senso della disciplina e per la lingua che con la sua solennità ed il rigore della sua grammatica in qualche modo racchiuse in sè tutto questo:
"Stavo pensando a quei tempi lontani, a quando i Romani vennero qui per laprima volta, millenovecento anni fa. L'altro ieri... È uscita la luce da questo fiume, da allora... I Cavalieri, dite? Già; ma è come una vampata che corre nella pianura, come un lampo fra le nuvole. Noi viviamo in quel guizzo, che possa durare finché questa vecchia terra continua a girare! Ma ieri, qui, c'erano le tenebre. Vi immaginate lo stato d'animo del capitano di una bella - com'è che si chiama? ah sì - trireme del Mediterraneo, che riceve bruscamente l'ordine di portarsi al nord, attraversare in gran fretta la terra dei Galli, prendere il comando di una di quelle imbarcazioni che i legionari - altra manica di uomini in gamba - costruivano a centinaia, in un mese o due, se si deve credere aquello che si legge. Immaginatevelo qui, in capo al mondo, un mare color del piombo, un cielo color del fumo, una nave non più rigida di una fisarmonica, a risalire questo fiume con delle provviste, degli ordini, o chissà cosa d'altro. Banchi di sabbia, paludi, foreste, selvaggi, ben poco da mangiare per un uomo civilizzato e da bere, solo l'acqua del Tamigi. Niente Falerno qui, niente scali a terra. Qua e là un campo militare sperduto nella landa selvaggia, come un ago in un pagliaio - il freddo, la nebbia, le tempeste, le malattie, l'esilio e la morte - la morte in agguato nell'aria, nell'acqua, nella boscaglia. Dovevano morire come mosche qui. Eppure lui se l'è cavata. E bene anche, indubbiamente, e senza neanche pensarci troppo, se non dopo, forse, per vantarsi di tutto quello che aveva dovuto sopportare. Sì, erano uomini quanto basta per poter guardare le tenebre in faccia."
Proprio come ci sentiamo noi oggi, non è così?
Una vecchia passione: i rebus
Vi ho già accennato alla mia inclinazione mentale per i piccoli enigmi e per ciò che in qualche modo appare sfuggente, multiforme, persino contraddittorio. I rebus, questo genere molto tradizionale di gioco enigmistico, in qualche modo a mio avviso riassumono queste caratteristiche - per quanto in una forma leggera, come si confa appunto ad un gioco. Tra tutti i giochi enigmistici, sono sempre quelli che vado a cercare per primi, negli inserti estivi dei quotidiani o nelle riviste.
Sarà per il latino del nome (ah, il latino con la sua solennità, una conoscenza che mi piacerebbe avere); ma più probabilmente ad attirarmi è l'apparente assurdità delle composizioni grafiche, degne del miglior dadaismo:
Sarà per il latino del nome (ah, il latino con la sua solennità, una conoscenza che mi piacerebbe avere); ma più probabilmente ad attirarmi è l'apparente assurdità delle composizioni grafiche, degne del miglior dadaismo:
(immagine tratta da https://www.aenigmatica.it)
A proposito, la soluzione del rebus illustrato qui sopra è ... facile.
Succo di limone (senza zucchero)
E' la sensazione che mi viene in mente ascoltando questo famossissimo brano del mitico John Coltrane... Enjoy top level saxophone playing.
domenica 10 agosto 2014
I luoghi ricordano (un pensiero per Sant'Anna)
Il 12 Agosto saranno trascorsi 70 anni dalla strage di Sant'Anna di Stazzema. Io sono nato molti anni dopo, nel 1960, quando già la guerra cominciava ad essere un brutto ricordo. Ho saputo di Sant'Anna dai racconti dei miei, quando altrove in Italia non se ne parlava ancora. Le persone del mio paese raccontavano del fumo nero che saliva da dietro le colline che dalla cima si vede il mare, delle voci che si inseguivano nei ricci (si chiamavano così le stradine pavimentate di sassi difformi che si insinuavano tra le case). "Hanno bruciato Sant'Anna!", "Hanno bruciato Sant'Anna!". Quello che era successo non si poteva immaginare. Chi raccontava abbassava lo sguardo e scuoteva il capo: "Povera gente". Non c'era bisogno di andare oltre. Nessuna curiosità, nessun odio. Solo una profonda tristezza ed una preghiera senza parole. "Adesso sono nel vento" canterebbe Guccini. Io aggiungo che sono nella terra, nelle pietre, nelle foglie, nei tronchi e nell'odore del bosco che circonda Sant'Anna. I luoghi ricordano, i luoghi parlano. Da ragazzo c'erano due posti in alto sopra il mio paese, sul crinale da dove si potevano dominare due valli di solitaria e spoglia bellezza, con un profumo di erbe odorose che s'addensava nell'aria sotto il sole d'estate e il coro delle cicale indifferente al rumore dei miei passi. Ci andavo da solo, per avere paura. Non la paura che allontana, ma quella che ti invita a non avere paura, a lasciare che quella specie di elettricità che avverti intorno ti rassicuri e ti parli. E nel mio cuore, questo sentivo: "Questo trattenere il respiro, questa tensione sulla pelle, questa presenza che avverti alle spalle; siamo noi, tutti quelli che prima di te sono passati per questo sentiero, diretti alle cave di marmo - ed ancora era notte - e non sai quante volte e quanto era lunga la strada. Abbiamo lasciato in questo posto un pò delle nostre speranze, del nostro dolore, delle nostre risate e delle nostre bestemmie ed è questo che senti vibrare qui, sono frammenti delle nostre vite." Amavo ed amo quei posti fino all'ultimo sasso ed è ovvio che quello che ho appena scritto erano fantasie da innamorato. Mi piace però pensare che davvero i luoghi conservino memoria delle vite di chi li ha vissuti e che così sia anche per Sant'Anna. Riposino in pace.
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